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L’ITALIA FASCISTA E LA COLONIZZAZIONE DEMOGRAFICA DELLA LIBIA: premesse, sviluppi e conclusione di un progetto politico-sociale totalitario.

 

Marco Piraino

Storico e scrittore, specializzato nello studio del totalitarismo fascista, laureato in Storia all’Università di Pisa (Italia), curatore della collana editoriale “Biblioteca del Covo – scritti dottrinali e politici del Fascismo”.

 

Premessa.

A più di settant’anni dai fatti presi in esame, quale senso è possibile attribuire a quel particolare progetto coloniale di popolamento che prese il nome di “colonizzazione demografica” e che venne attuato dallo Stato totalitario mussoliniano negli anni Trenta? Per quale motivo il governo fascista volle inviare migliaia di contadini verso le coste della Libia, un’area geografica depressa che era stata qualificata spregiativamente da una parte degli italiani, come Gaetano Salvemini, quale inutile “scatolone di sabbia” ? Uno spreco vano ed immotivato di risorse è stato definito da alcuni, rivelatore tanto della megalomania quanto della confusione e dell’inconcludenza dei piani economici del governo di Mussolini. Senza dubbio, se il fine ultimo di quell’avventura politica, concretamente avviata nella seconda metà degli anni Trenta e conclusasi per di più in brevissimo tempo in modo tragico a causa della sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale, fosse stato il semplice sfruttamento di ipotetiche ricchezze naturali presenti nel territorio libico, al bilancio fallimentare di tale impresa andrebbe aggiunta anche l’assoluta insensatezza di un simile obiettivo, essendo notoria in quegli stessi anni la pressoché assoluta mancanza di reali risorse economiche nell’area in questione, ad eccezione di una povera agricoltura e di un misero commercio delle pelli. In realtà le finalità del governo fascista, piuttosto che essere mosse dal proposito di ricercare primariamente possibili vantaggi di natura economica dallo sfruttamento della propria colonia nordafricana, rispondevano più alle esigenze della politica totalitaria avviata dal regime, tendenti a rafforzarne il prestigio ed il consenso interni alla nazione, nonché contemporaneamente a conseguire obiettivi di natura politica e sociale propri dell’ideologia fascista, quali la volontà di creare un avvenire stabile e sicuro per centinaia di famiglie di contadini italiani, che avrebbero dovuto trasformare quel che era un territorio desertico in campi ubertosi, ma anche la possibilità di concretizzare un più vasto disegno geopolitico di stampo imperiale che avrebbe coinvolto tanto gli italiani quanto le locali popolazioni mussulmane.

Sviluppo storico della colonizzazione demografica in Libia.

La colonizzazione italiana in Libia ebbe complessivamente una durata poco più che trentennale, orientativamente dal 1911 al 1943. Dunque un’occupazione breve, segnata oltretutto dal lungo conflitto fra gli occupanti e le popolazioni locali di etnia araba e berbera, dove fra rivolte e repressioni l’insieme dei territori libici poté essere dichiarato ufficialmente pacificato solamente all’inizio degli anni Trenta, dopo una lunga e sanguinosa lotta costata centinaia di morti italiani e migliaia di vittime tra le genti degli altipiani magrebini di Tripolitania e Cirenaica.[1] Uno scontro nel quale purtroppo la condotta delle forze militari, in special modo quella delle più alte gerarchie rappresentate dalle persone di Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani, assunse spesso caratteri ingenerosi quando non addirittura veri e propri comportamenti criminali.[2] Ma fu precisamente a partire dalla metà degli anni Trenta, con la conclusione delle operazioni militari e l’arrivo a Tripoli del Governatore fascista Italo Balbo, che poté essere inaugurata una nuova fase politica, economica e sociale che avrebbe coinvolto l’intera popolazione della colonia in un nuovo corso che sarebbe culminato tra il 1938 ed il 1939 nella migrazione della prima avanguardia di circa 30.000 rurali provenienti dall’Italia, teorico preludio ad un più vasto ed ambizioso progetto di emigrazione gestita dallo Stato che prese il nome di “Colonizzazione demografica”.

Alle origini dell’avventura italiana in terra libica, fra le ragioni ampiamente propagandate dalla pubblicistica dei primissimi anni del Novecento, che avevano condotto nel 1911 il governo presieduto dal conservatore liberale Giovanni Giolitti a deciderne l’occupazione, non va dimenticata la speranza di risolvere il gravissimo problema dell’emigrazione, offrendo ai lavoratori nazionali disoccupati un possibile sbocco lavorativo, in un territorio che, appartenendo alla madre patria, non permettesse così di recidere definitivamente, com’era invece avvenuto per coloro che si erano diretti ad esempio nelle Americhe, il legame culturale, economico e politico con la nazione d’origine. Diversi settori della stessa Stampa, variamente orientati in senso politico, esaltando molto spesso il ruolo dell’Italia come “nazione proletaria”, si impegnarono affinché l’opinione pubblica guardasse con favore a questa nuova impresa coloniale, dopo la sosta dovuta alla clamorosa sconfitta di Adua patita nel 1896 a opera delle armate abissine, rimarcando a più riprese l’affermazione secondo la quale i territori libici della Tripolitania e della Cirenaica, scarsamente popolati, possedevano le risorse necessarie e sufficienti per accogliere centinaia di migliaia di nuovi abitanti, sostenendo inoltre che la coltivazione di questi nuovi territori avrebbe potuto permettere lo sviluppo di una piccola proprietà agricola coloniale capace di assorbire una parte non indifferente dell’emigrazione italiana, in special modo proveniente dalle regioni del sud. [3] Destra e sinistra, repubblicani e cattolici, nazionalisti e socialisti, nord e sud tutti parteciparono, all’entusiasmo per la conquista. Tra i socialisti, ad esempio, l’ala riformista capeggiata da Bissolati e Bonomi guardava con favore la conquista della Libia affermando che la solidarietà nazionale avrebbe rafforzato quella di classe. Ad essi si univano i sindacalisti rivoluzionari come Arturo Labriola, Paolo Orano e Angelo Oliviero Olivetti, i quali speravano che la guerra avrebbe ridestato il proletariato e l’avrebbe preparato alla lotta rivoluzionaria insegnandogli a combattere. Il socialista siciliano De Felice Giuffrida era favorevole alla guerra nell’interesse della sua isola : secondo lui, incorporata la Libia nei possedimenti italiani, la Sicilia si sarebbe trasformata da appendice del paese a ganglio vitale per il commercio interno.[4]

Fu però soltanto dopo l’avvento del regime fascista, mentre ancora si lottava per riconquistare la maggior parte del territorio della colonia non ancora pacificato e sul quale di fatto fino ad allora la sovranità italiana era stata poco più che nominale, che si cominciarono ad intravedere i primi concreti risultati indirizzati verso una reale valorizzazione delle risorse agricole libiche. Durante i primi anni della cosiddetta “riconquista” il demanio coloniale era stato accresciuto grazie a nuove leggi che permettevano di considerare come demaniali le terre non coltivate. Fu decisa l'applicazione del principio (riconosciuto dalla stessa normativa islamica) inerente la presunzione di demanialità delle terre incolte. Il medesimo diritto ottomano, vigente prima dell’occupazione italiana, riconosceva che le terre cedute dal demanio al privato, dovessero ritornare al demanio medesimo qualora nel termine di un triennio esse non fossero state valorizzate. [5] In breve, si volle tenere conto della situazione che di fatto si era venuta a creare nella colonia in seguito alla conquista italiana, dove in molti casi parecchi terreni risultavano abbandonati, magari anche a causa della fuga dei vecchi proprietari, che non di rado si erano dati alla macchia lottando contro gli italiani o finendo in volontario esilio nei paesi limitrofi come l’Egitto, la Tunisia o l’Algeria, quando non addirittura morti a causa del conflitto stesso. Tale opera di confisca trovò nella dichiarazione di pubblica utilità la propria giustificazione, mentre le indennità di esproprio che furono versate vennero stabilite sulla base del valore dei terreni nel quinquennio antecedente all'occupazione italiana. A tal proposito furono inoltre pubblicati avvisi nei centri urbani e nelle campagne, ammettendo l’eventuale ricorso nel termine di due mesi contro le dichiarazioni di demanialità e procedendo contemporaneamente nell'accertamento dei terreni non coltivati. Successivamente venne stabilito anche l'indemaniamento di terreni incolti sui quali pur risultavano gravare diritti accertati. [6] Per la prima volta nella storia del paese nordafricano furono così messe concretamente in discussione le stesse potenzialità produttive dei metodi di coltivazione utilizzati dagli arabi, giudicati obsoleti ed insufficienti rispetto a quelle che si riteneva fossero le reali potenzialità offerte dal territorio, cominciando contemporaneamente a tradurre nei fatti il principio dei doveri connessi al possesso della terra.[7] Tuttavia, appare chiaramente quanto tale manovra finisse con lo sconvolgere e penalizzare gravemente gli interessi economici tradizionali delle popolazioni locali, suscitando in tal modo risentimento nei diretti interessati, nonché l’indignazione degli storici moderni, che spesso non hanno esitato in parecchi casi a definire con sdegno tale operazione come un vero e proprio “furto autorizzato” dei terreni agricoli migliori.[8]

Le fasi della colonizzazione.

Nelle primissime fasi della colonizzazione, negli anni tra il 1922 ed il 1926, in Tripolitania 31.000 ettari delle terre migliori furono distribuite a concessionari italiani per impiantarvi e svilupparvi una colonizzazione privata di tipo capitalistico.[9] Il primo governatore che si era occupato con impegno di colonizzazione - cioè di rendere produttiva e abitabile parte delle terre libiche - era stato il conte Giuseppe Volpi, che fra le due strade possibili, iniziativa privata e pubblica, scelse la prima : requisì i territori dei ribelli, dichiarò proprietà demaniale tutte le terre incolte e le affidò in concessione, con formule vantaggiose, a società private. I risultati furono modesti: pochi erano disposti a investire grandi capitali in Libia, e comunque il basso costo della manodopera locale non favorì il popolamento italiano.[10] Fu proprio a partire dal 1926 che il modello della colonizzazione privata di tipo capitalista, adottato in principio poiché ritenuto economicamente meno dispendioso per l’erario pubblico e potenzialmente più redditizio dal punto di vista produttivo, conobbe una forte crisi. Essa si concretizzò anche a causa delle condizioni climatiche difficili che manifestarono palesemente tutti i limiti di questo tipo di gestione con il verificarsi di casi di abbandono di parecchie concessioni, dimostrando chiaramente quanto in realtà la colonizzazione privata non avesse provocato che un modesto afflusso di manodopera italiana nella colonia.[11] La grande concessione a carattere privato aveva così compiuto il suo ciclo di battistrada della colonizzazione agricola, mentre in Italia andavano intanto delineandosi nuovi scenari nella gestione della politica socio-economica che col trascorrere degli anni avrebbero ulteriormente accelerato un iter che, nel caso della Libia, avrebbe ben presto finito col privilegiare un rapporto sempre più diretto fra le pressanti esigenze politiche espresse dal regime mussoliniano e le potenzialità più o meno reali che il fascismo stesso fini con l’attribuire ai territori libici. Fu proprio la prima visita in Libia di Benito Mussolini avvenuta nel 1926 ad imprimere nuove e concrete energie nei riguardi dell’opera di colonizzazione, verso la quale egli stesso, in qualità di Capo del Governo italiano, mostrò un rinnovato interesse, facendo tra l’altro intendere che da tale processo non potesse essere in alcun caso esclusa la Cirenaica, allora non ancora completamente pacificata.[12] Da qui la nuova politica verso la Libia, che iniziò nel 1926, con il governatore Emilio De Bono. De Bono preparò un piano quinquennale che avrebbe dovuto insediare 53.000 coloni in Tripolitania. Il suo era un sistema misto, in quanto vastissimi possedimenti venivano concessi a grandi proprietari, con l'obbligo però di cederne, a riscatto, appezzamenti a contadini italiani.[13] Dunque, a partire dalla constatazione dell’inadeguatezza del modello di colonizzazione capitalistica rispetto alle esigenze espresse dal regime e con lo scopo di rilanciare la politica d’immigrazione italiana, il governo fascista precisò nuovi obiettivi economici e demografici da raggiungere. Nei due anni successivi alla visita di Mussolini, in Tripolitania, risultavano distribuiti 66.615 ettari, mentre nel biennio 1927-1928 in Cirenaica furono divisi a diciotto imprese all’incirca 9.006 ettari. [14] Nel 1928 il principio della collaborazione organica fra imprenditore e lavoratore cominciava così a penetrare sempre più nella logica dei futuri piani di sviluppo coloniali. Da una semplice colonizzazione agraria incentrata essenzialmente su esigenze di carattere più che altro economico si stava passando progressivamente ad un modello coloniale che si proponeva prevalentemente degli scopi di natura politica. In tale prospettiva il ruolo dello Stato finì sempre più col divenire assolutamente centrale nel pianificare, organizzare e realizzare un simile progetto, giacché i semplici capitali privati, come il piano di colonizzazione “mista” adottato dal governatore Emilio De Bono avrebbe ben presto dimostrato, non potevano in alcun caso essere sufficienti al fine di poter disporre di quei mezzi finanziari capaci di concretizzare una vasta emigrazione contadina ed un impiego massiccio di manodopera italiana come quello che il governo fascista si proponeva di attuare. In effetti, questo piano dette qualche buon risultato, ma allo scadere dei cinque anni erano giunti solo 7000 nuovi coloni, e De Bono non riuscì a migliorare la situazione neanche come ministro delle Colonie, a causa - sosteneva - della mancanza di fondi.[15] Lo Stato dunque dovette necessariamente intervenire direttamente con l’offerta di crediti e di altri vantaggi cercando possibilmente di verificare, tramite la creazione di un apposito organismo di controllo quale il “comitato di colonizzazione”, i problemi sempre più complessi che la colonizzazione agraria poneva quotidianamente all’ordine del giorno.[16] Venne così progressivamente maturando il principio di una gestione sempre più diretta da parte dello Stato fascista nei riguardi della politica agricola e demografica in colonia. Un concetto questo che avrebbe invertito oggettivamente la tendenza adottata precedentemente dall’amministrazione coloniale e che avrebbe progressivamente finito col sostituire nel tempo la grande concessione capitalista, favorendo al contrario la costituzione di una piccola proprietà colonizzatrice fondata su unità poderali destinate ciascuna ad ogni famiglia colonica. Tale inversione di tendenza venne accompagnata da numerosi dibattiti tra gli esperti ed i politici che affrontarono il tema riguardante le possibili dimensioni effettive dell’immigrazione che gli specifici caratteri della colonia nordafricana dell’Italia avrebbero potuto permettere. La questione venne però analizzata basandosi fin troppo spesso più su fantasiose valutazioni rispondenti alle proprie speranze piuttosto che sulle reali caratteristiche del territorio in questione.[17] Di fatto va rilevato che i crediti concessi dallo Stato permisero indiscutibilmente, anche se su un piano assai lontano dalle valutazioni ottimistiche espresse da alcuni esponenti del governo, di allargare la presenza degli agricoltori italiani. Nel 1933, alla vigilia dell'unificazione amministrativa fra Tripolitania e Cirenaica, la colonizzazione demografica nei terreni facenti capo amministrativamente a Tripoli poteva considerarsi avviata, mentre in Cirenaica, sebbene fosse trascorso soltanto un anno dall’effettiva pacificazione, ferveva una notevole attività, che sulla base dell'esperienza maturata nel territorio tripolino, avrebbe portato anch’essa, tramite gli opportuni espropri, alla costituzione di un vasto patrimonio demaniale. In generale su 220.000 ettari di terre acquisite dal demanio coloniale, di cui poco più di 100.000 affidate realmente in concessioni agricole private, si potevano contare 1.530 famiglie di coloni metropolitani provenienti dall’Italia distribuite in 513 concessioni, ossia un totale di circa 7.500 persone,[18] le quali certamente costituivano una goccia rispetto alla marea rappresentata dagli oltre 650.000 libici presenti in colonia a quella data, ma comunque rappresentavano un segnale chiaro di inversione di tendenza rispetto al passato di una rinnovata e sempre più incisiva presenza dello Stato totalitario. Il piano d’intervento adottato fu quello dei cosiddetti “comprensori agricoli”, costituiti su terreni forniti dal demanio e messi a disposizione dal governo coloniale, nei quali vennero predisposte tutta una serie di infrastrutture necessarie per la coltivazione dei terreni ed in generale per la vita delle famiglie ivi residenti, ovvero le strade, le case, i pozzi, le opere idrauliche, financo il bestiame, gli attrezzi e le sementi, nonché i centri collettivi di servizio e di trasformazione dei prodotti agricoli, senza che al contempo ci si dimenticasse di garantire ai coloni il credito finanziario e la supervisione nonché la direzione nella stessa gestione della conduzione dei poderi. Le famiglie scelte in Italia, secondo criteri definiti dagli organismi governativi centrali facenti capo al Partito fascista, tra quelle che ne avevano fatto domanda, si impegnavano a risiedere nella concessione agricola, ricevendo un contributo in denaro per tutti periodi che fossero eventualmente risultati insufficientemente produttivi, un apporto economico questo che, unito al valore del podere medesimo ed a tutto ciò che era stato realizzato per contribuire ad avvalorarne la resa agricola, sarebbe stato successivamente risarcito dagli stessi coloni tramite i prodotti del loro lavoro.[19] Per ciò che riguardava invece la proprietà stessa dei terreni, essa sarebbe stata rilevata dai rurali in un periodo valutato approssimativamente fra i venti ed i trenta anni. In merito al rapporto tra i luoghi d’origine delle famiglie dei coloni e la loro teorica maggiore o minore adattabilità alle condizioni climatiche proprie della Libia, va rilevato che tale questione fu anch’essa oggetto di discussioni fra i tecnici. Ad esempio Armando Maugini, il direttore dell'Istituto agronomico di Firenze per l'oltremare, era tendenzialmente a favore di un’emigrazione che provenisse prevalentemente dal meridione d’Italia, in special modo dalla Puglia e dalla Sicilia, poiché era del parere che le famiglie provenienti da tali territori non si preoccupassero eccessivamente delle sofferenze climatiche che avrebbero potuto patire in Africa, in quanto gente avvezza a tali avversità. Per il Maugini gli emigranti siciliani costituivano i candidati ideali in quanto già abituati alle asprezze del torrido clima nordafricano, nonché al tipo di coltivazioni cui il suolo libico poteva prestarsi, anche se, in definitiva, la Libia non divenne mai quel paradiso dell’emigrazione meridionale in cui si era tanto sperato da più parti.[20] Per ciò che concerne gli appoderamenti veri e propri, furono stipulati dei contratti per ciascun concessionario definiti “disciplinari di concessione”, ciascuno avente differenti clausole che potevano variare a seconda della posizione, della dimensione e della fertilità dei terreni distribuiti. Ad inaugurare tale nuova fase del processo di colonizzazione della Libia ci pensò l’Azienda Tabacchi Italiani che nella zona di Tigrinna, in Tripolitania, si specializzò nella coltivazione del tabacco.[21] In Cirenaica, teatro di guerra fino al 1931, dove la presenza di coloni provenienti dall’Italia, di gran lunga inferiore a quella di coloni nella Tripolitania, al termine delle operazioni militari si aggirava intorno ai 429 agricoltori distribuiti su una superficie di 14.000 ettari, finì invece per operare l’omonimo Ente di colonizzazione (Ente Colonizzazione Cirenaica, E.C.C.) creato nel 1932 e finanziato tramite capitali sia pubblici che privati. Esso aveva ricevuto in concessione vasti terreni sul Gebel Akhdar, ormai quasi del tutto abbandonato dalle popolazioni nomadi autoctone che a causa delle operazioni militari erano state trasferite con la forza sulla costa. [22] L’Ente si trovò dunque a gestire il territorio più prospero da un punto di vista agricolo di tutta la regione ( un’area che nel linguaggio delle stesse popolazioni locali era chiamata “Montagna Verde” ), con lo scopo dichiarato di attuare una colonizzazione destinata agli agricoltori italiani e nel quale effettivamente fu in grado di realizzare autonomamente la prima parte di tale programma edificando nel 1933 le prime 150 case per i nuovi agricoltori provenienti dalla penisola.[23] Lo schema tipo del nuovo villaggio rurale libico, diffuso in special modo in quelle zone assolutamente prive di precedenti urbanizzazioni, che risultarono essere le aree maggiormente coinvolte nel progetto coloniale demografico e che venne utilizzato fino alla fine della colonizzazione italiana, era costituito da un nucleo centrale rappresentato dal villaggio vero e proprio, dove si concentravano tutti i servizi destinati alla vita delle comunità stesse, attorno al quale si sviluppava la fitta rete di strade che conducevano alle numerose fattorie coloniche che sorgevano nell’area agricola di pertinenza di ciascun comprensorio. I servizi presenti nei villaggi potevano variare, a seconda delle dimensioni della stessa comunità di immigrati, ma in generale era possibile trovare sempre i medesimi elementi ricorrenti costituiti dagli uffici della municipalità e della posta, dalla Casa del Fascio, sede del locale ufficio del partito fascista con le relative diramazioni, dal posto di polizia, dalla chiesa, dalla scuola, dall’infermeria, dai magazzini e dal mercato coperto, dagli uffici degli organismi di colonizzazione, da un ostello e dalle residenze dei funzionari.[24] Nel corso dei primi anni della sua attività l’Ente realizzò quattro villaggi in Cirenaica: Beda Littoria, Giovanni Berta, Primavera che successivamente venne ribattezzato con il nome del primo presidente dell’E.C.C. Luigi Razza, e Luigi di Savoia. Un simile programma di colonizzazione, per la molteplicità e la vastità stessa degli obiettivi che si proponeva di raggiungere, finì da subito però col riproporre gli immancabili problemi di ordine gestionale nonché di espansione dei costi. Stando dunque ai fini dichiarati del regime fascista, che andavano ben al di là della semplice messa a profitto del territorio coloniale, era naturale che tale opera economicamente assai dispendiosa, proprio perché caratterizzata eminentemente da scopi di natura prevalentemente politico-sociale, avrebbe finito col vedere lo Stato mussoliniano assumerne “totalitariamente” ed in prima persona la gestione, con l’ausilio di tutti i mezzi di cui esso poteva disporre, rinunciando ormai di fatto e definitivamente a qualsiasi proposito di maturare profitti economici a breve e medio termine. In tale contesto, si attuò la decisione politica di affiancare all’Ente di Colonizzazione della Cirenaica (che nel frattempo, con decreto dell’11 Ottobre 1934, avrebbe visto notevolmente ampliati i suoi compiti allargando il suo campo di intervento anche alla Tripolitania, cambiando così definitivamente denominazione e divenendo Ente per la Colonizzazione della Libia altrimenti detto E.C.L.)[25] l’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale conosciuto più semplicemente come I.N.F.P.S. … Può a prima vista destare meraviglia che un ente destinato a funzioni di previdenza si impegnasse in modo diretto nell'impresa della colonizzazione agraria libica: si può dire in sintesi che l'intervento dell’INFPS fu il risultato di fattori nel contempo economici, politici ed ideologici di carattere generale legati alla storia italiana di quel periodo, coniugati con le vicende personali di alcuni esponenti del regime fascista. Per meglio definire questo insieme di fattori è necessario spostare l'attenzione dagli avvenimenti della colonia a quelli della madrepatria tra la fine degli anni venti e l'inizio del decennio successivo. In effetti il mutamento di direzione politica che portava lo Stato ad intervenire nell'ambito della colonizzazione agraria della Libia con maggiore peso,[...] deve essere visto nel quadro più generale della situazione economica italiana e del dibattito sulle prospettive economico-sociali del regime. L'aggravamento della situazione economica del paese nella seconda metà degli anni venti, riflesso di una crisi economica di carattere internazionale che sfocerà nella grande depressione degli anni successivi al 1929, si manifestava soprattutto nel gravissimo fenomeno della disoccupazione e della precarietà del lavoro, particolarmente evidenti nel settore agricolo. [...] L'agricoltura era tra i settori più colpiti (circa 300.000 disoccupati nel 1933) , ma un numero pressappoco uguale di disoccupati si incontrava anche nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Il passaggio dalla fase liberale del primo periodo fascista alla fase dirigista che si delinea intorno al 1926, a parte altre considerazioni di carattere politico generale e problemi di interpretazione storiografica, è sicuramente anche un tentativo di fronteggiare la critica situazione che le cifre appena citate mettono eloquentemente in evidenza. E’ in questo quadro economico, a cui si uniscono strettamente ragioni di carattere più politico ed ideologico, così come esigenze di mantenimento dell'ordine nel paese e di consenso verso il regime, che vanno visti molti dei provvedimenti amministrativi e legislativi in campo economico e sociale presi in quegli anni. Ne è un esempio la creazione, nel 1926, di un Comitato permanente per le migrazioni interne ( che diverrà nel 1931 il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna ) , destinato a controllare e ad organizzare lo spostamento della manodopera dalle zone sovrappopolate e con più alti tassi di disoccupazione verso le zone che ne erano carenti o che erano suscettibili di sviluppo; tale comitato avrà un ruolo notevole anche nell’organizzazione della migrazione di rurali in Libia alla fine degli anni trenta. Particolarmente importante ai fini del nostro discorso sono i provvedimenti per la bonifica integrale, che si concretizzano in legge alla fine del 1928. Dichiarata “legge fondamentale del regime”, la legge della bonifica integrale ( 24 dicembre 1928, conosciuta anche come legge Mussolini ) prevedeva circa 1800 interventi di bonifica di zone paludose e insalubri all’interno della penisola con massicci interventi di finanziamento da parte dello Stato, che potevano arrivare al 75% delle spese per i lavori di maggior interesse economico ed igienico. Di pari passo con la graduale trasformazione in senso dirigista della politica economica del regime si era sviluppato un dibattito teorico imperniato intorno alla definizione della natura del corporativismo e dello Stato corporativo. [...] Le posizioni in sostanza si situavano tra due estremi, identificando una « destra » e una « sinistra » : da un lato coloro che affermavano la necessità di un «attenuamento del carattere d'eccezione che il regime aveva assunto [... attraverso il ] ritorno alla normalità monarchica», dall'altro chi invece sosteneva che il regime dovesse finalmente assumere le caratteristiche radicali con cui si era presentato ai suoi inizi, quelle cioè di un movimento rivoluzionario che una volta al potere si sarebbe nettamente differenziato dallo stato liberale nelle sue finalità e nella sua organizzazione. Le implicazioni di questo dibattito erano particolarmente rilevanti per le scelte da compiere in materia economica [...] da una parte quanti ( il padronato industriale in primo luogo) si pronunciavano per la supremazia assoluta dell'iniziativa privata, non riconoscendo diritti di controllo e ammettendo un limitatissimo margine di manovra per interventi di carattere organizzativo o di razionalizzazione da parte dello Stato; dall'altra chi invece riteneva che lo Stato, con le sue scelte di politica economica, dovesse porsi come un momento di superamento del sistema capitalista e farsi motore dell'economia, intervenendo nei punti nodali dell'organizzazione produttiva per realizzare le finalità sociali e politiche della rivoluzione fascista. Tra gli esponenti di quest'ultima posizione, tra coloro cioè che intendevano il corporativismo come «una politica di intervento sistematico e programmatico dello Stato nell'economia al fine di coordinare, disciplinare e [...] dirigere la produzione e, in prospettiva, lo sviluppo e la modernizzazione del paese», era Giuseppe Bottai. [...] Le posizioni teoriche di Bottai e dell'ala di cui egli poteva considerarsi uno dei principali esponenti vedevano nel corporativismo il momento in cui lo Stato avrebbe rifondato le sue stesse basi, ma soprattutto il sistema con cui il movimento fascista si sarebbe realmente posto come alternativa a quello liberal-capitalista da un lato e a quello socialista dall'altro, mostrando finalmente di non essere soltanto «reazione» ma anche «rivoluzione». In questa visione il corporativismo era «una nuova politica economica e sociale [...] concepita in termini moderni e progressivi, aperta a nuove, anche radicali esperienze economiche e in specie [...] ad un sempre maggior intervento dello Stato in tutti i settori della vita economica. [...] A Bottai furono affidati in seguito altri incarichi: in particolare, a partire dall’inizio del 1933 egli si trovò a dirigere la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, dove qualche tempo dopo assunse i pieni poteri, cumulando quelli del consiglio di amministrazione, del comitato esecutivo e dei comitati speciali delle singole gestioni. Già nel primo anno della presidenza Bottai aveva avuto la possibilità di esprimere la sua visione dei compiti che la Cassa doveva assumere, e che andavano molto al di là della corrente gestione delle attività di previdenza a cui essa era abituata. L'arrivo di Bottai aveva portato ad una ristrutturazione generale dell'ente, sottolineata, tra l'altro dal cambiamento della sua denominazione in Istituto nazionale fascista della previdenza sociale. Il cambiamento di nome non era soltanto un fatto formale, ma significava un allineamento su nuovi obiettivi che così lo stesso Bottai aveva definito: “Alla nuova denominazione deve darsi il valore di una assegnazione di compiti più vasti, di un'attività più profonda nella vita sociale del nostro paese, e questa ormai s'esprime integralmente nell'ordinamento corporativo; è in questo, nei suoi organi e nelle sue norme, che deve ricercare i mezzi e le direttive del suo maggiore sviluppo”. Le nuove direttive che l'istituto avrebbe dovuto seguire mutavano l'ordinamento tradizionale ed il tradizionale modo di impiego dei suoi capitali. Affermava ancora Bottai: “L'impiego dei fondi dell'Istituto, pur attuandosi attraverso le forme del diritto privato, è attività di interesse pubblico in un duplice senso: nel senso che da esso la collettività sociale trae grande beneficio sotto aspetti molteplici e nel senso soprattutto che date le finalità che l'Istituto persegue, l’impiego dei fondi rappresenta una delle attività che più profondamente ne toccano il carattere pubblico”. Fu in questo quadro politico e istituzionale e seguendo queste linee di politica economica che Giuseppe Bottai alla fine del 1933 prese l'iniziativa di proporre l'intervento dell'Istituto nazionale fascista della previdenza sociale nell'ambito della colonizzazione agraria della Libia. [26] Dunque, a causa della crisi finanziaria che colpiva l’economia italiana, in ragione delle negative congiunture internazionali, non essendo realisticamente possibile realizzare concretamente un aumento dei fondi messi a disposizione della Libia, proprio in virtù dell’interesse pubblico superiore che tale operazione finiva con l’assumere si ricorse alla partecipazione dell’I.N.F.P.S nell’opera di colonizzazione agricola, previo l’utilizzo di una parte dei fondi dell’assicurazione contro la disoccupazione. Quasi contemporaneamente a tale intervento, nel Gennaio 1934, venne nominato governatore generale della Libia il trentottenne “maresciallo dell’aria” Italo Balbo, uno dei più rappresentativi e famosi personaggi del fascismo, esecutore e protagonista della svolta statalista nell’amministrazione coloniale libica, che seppe sviluppare concretamente i piani del Regime riguardanti lo sviluppo della colonia nel tentativo di collocarla stabilmente e definitivamente nel quadro della nuova politica totalitaria avviata dal governo mussoliniano.[27]

Il ruolo di Italo Balbo nella realizzazione del progetto totalitario fascista in Libia.

Non vi può essere alcun dubbio in merito al fatto che fu proprio l’energica azione del “quadrumviro della marcia su Roma”, nominato dal Duce come nuovo governatore della colonia, a rendere possibile quel salto di qualità che avrebbe modificato la vita dell’intera Libia nel breve corso di poco più di un lustro, trasformandola, alla vigilia dell’ingresso in guerra dell’Italia nel Giugno del 1940, nella “Quarta sponda” mediterranea della penisola. Egli trovò in colonia meno di 50.000 italiani: nel 1940 sarebbero stati ben 110.000 (esclusi i soldati), mentre il bilancio della Libia, che era di 400.000 milioni nel 1934, venne raddoppiato.[28] Ovviamente, non possiamo trascurare il fatto che Balbo beneficiò di tutta una serie di circostanze che ne favorirono i programmi di sviluppo quali, ad esempio, l’ormai raggiunta pacificazione interna, che gli permise anche di dimostrare quella “benevolenza” ed interesse verso il ruolo degli arabi di Libia, mancati del tutto ai suoi predecessori, [29] paradossalmente anche la stessa crisi economica internazionale finì di fatto con lo spronare ulteriormente il regime fascista ad investire le risorse di cui disponeva per trovare una soluzione ai gravi problemi che essa poneva prepotentemente. Certamente egli seppe far buon uso del suo talento organizzativo, della rigida ed inflessibile determinazione di cui nella sua carriera aveva dato prova nel portare a compimento gli incarichi affidatigli e del coraggio che non gli faceva certamente difetto, senza dimenticare il prestigio indiscusso a livello mondiale di cui godeva per le sue note imprese aviatorie.[30] Nel giro di 6 anni 5 mesi e 24 giorni, tanto durò il suo governatorato, la vita della colonia sembrò cambiare radicalmente rispetto agli incerti primordi degli anni precedenti, venendo investita da una frenetica attività in campo realizzativo fino ad allora sconosciuta. A partire dalla presenza numerica degli italiani, enormemente accresciuta, proseguendo con la costruzione di infrastrutture che modificarono il volto stesso dell’arido territorio nordafricano, rinnovato da tutta una serie di servizi, opere pubbliche e di bonifica, le quali innegabilmente costituirono un enorme passo in avanti sotto il profilo della modernizzazione del paese. Le stesse popolazioni arabe, precedentemente escluse da qualsiasi piano politico, economico e sociale che non fosse limitato al loro mero utilizzo come manodopera a basso costo nei campi, nei cantieri o nel loro arruolamento nelle forze armate coloniali, furono, volenti o nolenti, coinvolte ed associate in tale processo di sviluppo secondo specifiche modalità proprie della visione ideologica fascista. Il tutto avvenne seguendo una procedura a tappe, scandita da importanti riforme sia in campo amministrativo che legislativo. Nel 1934 venne attuato un nuovo ordinamento con la costituzione del governo generale della Libia formato dalla Tripolitania e dalla Cirenaica e diviso nelle quattro province di Tripoli, Misurata, Bengasi e Derna e dal Territorio militare del Sahara libico con sede a Hun. Successivamente con decr. legge del 9 gennaio 1939 le quattro province di Tripoli, Misurata, Bengasi e Derna furono aggregate al regno d'Italia, entrando a fare parte integrante del territorio metropolitano, il che costituiva un passo avanti rispetto all'annessione pura e semplice della Libia disposta con decreto del 5 novembre 1911 che significava semplicemente affermazione della sovranità piena e assoluta dell' Italia su quelle terre. S'intende che il decreto del 1939 riguardava direttamente i cittadini metropolitani delle quattro nuove province italiane costituite; ma toccava anche i Mussulmani delle quattro province diventati tutti non più « sudditi coloniali », ma bensì « cittadini italiani libici » con determinati diritti, quali ad esempio la partecipazione all'ordinamento sindacale corporativo vigente in Libia. Inoltre lo stesso decreto istituiva per i Mussulmani libici una « cittadinanza italiana speciale », da conseguire a domanda con particolari requisiti mantenendosi lo statuto personale e successorio musulmano, che permetteva la facoltà di... portare le armi e accedere alla carriera militare nei reparti libici, di essere podestà nei municipi libici o consultori nei municipi misti e disimpegnare cariche direttive nelle organizzazioni sindacali corporative. Contemporaneamente, con decreto del 9 gennaio 1939, venne istituita l'Associazione mussulmana del littorio con il compito di « curare l'elevazione morale e civile dei nativi mussulmani » delle province italiane, che avessero acquistato la « cittadinanza italiana speciale » , e furono abolite le preesistenti disposizioni regolanti l'acquisto della piena cittadinanza italiana metropolitana. Il provvedimento mirava a inserire più intimamente la Libia costiera nella vita della metropoli, in vista anche del popolamento intensivo iniziato con l'immigrazione colonica dal 1937 in poi, e nello stesso tempo dava prova di rispetto per la coscienza religiosa e l'individualità etnica dei Mussulmani poiché non chiedeva rinunzie allo statuto personale né insidiava il loro attaccamento ad esso con la lusinga di maggiori diritti e privilegi.[31] Per ciò che attiene più strettamente le opere pubbliche di prima necessità il governatore volle la realizzazione di quello che costituì il più importante asse stradale mai realizzato in quei territori, lungo il quale, non a caso, sarebbero sorti i centri agricoli della colonizzazione demografica: la cosiddetta strada litoranea successivamente nominata “Balbia”. Lunga 1.822 chilometri venne realizzata tra il 1935 ed il marzo 1937 con uno stanziamento di 103 milioni distribuiti interamente su dieci anni di bilancio della colonia, per cui non costarono niente allo stato. Vi lavorarono 11 imprese coordinate da 45 funzionari del genio civile, oltre 11.000 operai libici e 1000 italiani.[32] In realtà, i chilometri costruiti “ex novo” furono 800, mentre tutto il tratto restante venne completamente rinnovato e riattato.[33] Essa percorreva da est ad ovest l’intero territorio libico, dalla frontiera tunisina sino all’Egitto, inoltrandosi non di rado nell’entroterra, come nell’attraversamento del Gebel Akhdar in Cirenaica. Questo asse stradale non solo finì col rivelarsi indispensabile nell’agevolare il processo di colonizzazione, ma rese possibile successivamente un notevole risparmio nei trasporti di materiali necessari per realizzare altre nuove strutture indispensabili ai fini di tale processo di modernizzazione infrastrutturale.[34] L’opera venne solennemente inaugurata dallo stesso Mussolini, che con la sua presenza, oltre a rendere un doveroso omaggio all’azione svolta da Balbo, volle suggellare ufficialmente di persona il “nuovo corso” della vita nella colonia, tanto per gli italiani che vi si erano trasferiti o erano in procinto di farlo, quanto per gli arabi libici. «Volontà divina, pace, benessere» - scandito dai notabili libici al passaggio del Duce - sintetizza al meglio la politica mussulmana perseguita dal regime in Libia che, al «rispetto» dell'Islàm e all'opera di «pacificazione» adesso completata, affianca un terzo essenziale elemento. A smentire gli spiriti critici più malevoli - sostenitori della totale subordinazione del filo-islamismo fascista ad inconfessabili obiettivi imperialistici - si mettevano in bella mostra le provvidenze del regime - o meglio, del Governo della Colonia - per i suoi «sudditi mussulmani», ovverosia interventi diretti al sostegno della locale vita religiosa, quali la costruzione ed i restauri di moschee ed altri luoghi di devozione, l'inaugurazione della Scuola Superiore di Cultura Islamica, una buona amministrazione dei beni awqaf, le agevolazioni per i pellegrini diretti alla Mecca l'apertura di tribunali sciaraitici, ed altre provvidenze di carattere più generale come il sostegno all'artigianato locale ed alla colonizzazione agricola indigena attraverso la fondazione ex novo - sul modello di quella, ben più cospicua, dei coloni italiani - di villaggi riservati a famiglie contadine libiche, la costruzione di quartieri ad abitazione per operai indigeni, l'innalzamento dei livelli scolastico (ma non di quello superiore, mentre per il grado elementare ci si appoggiava ancora in parte al tradizionale kuttab) e sanitario, l'obiettivo dell'accrescimento demografico della popolazione locale, utile però entro i limiti stabiliti dall'auspicata «sommersione delle razze indigene con elementi metropolitani»;[...] tutto all'insegna del «connubio perfetto» tra slancio modernizzatore occidentale e tradizione mussulmana. Ancor più significativamente riguardo i mutati equilibri geopolitici ... l'Italia in Libia si dichiarava orgogliosa di una politica islamica senza precedenti [...] funzionale alla ricerca di un consenso delle popolazioni della Libia, inserite in un più vasto complesso imperiale nel quale l’islam rappresentava un elemento da tenere nella dovuta considerazione, sia per la consistenza numerica dei sudditi mussulmani, che in prospettiva di un aumento dell’influenza italiana nel mediterraneo orientale.[35] Più in generale, come lo stesso Claudio Segré acutamente non manca di sottolineare, andrebbe rilevata la valenza plurima del viaggio di Mussolini, cioè del significato politico oltre ché propagandistico che esso dovette necessariamente assumere per Balbo ed in prospettiva conseguentemente per la vita dell’intera Libia ...Trionfo personale, ritorno alla ribalta: per Balbo la visita di Mussolini significò tutto questo, ma segnò anche una svolta nei suoi piani sul futuro della colonia. Con la conquista dell'Etiopia, la Libia era diventata un bastione dell'impero, un centro di irradiamento del potere e della influenza italiani nel Mediterraneo. Il viaggio in Libia di Mussolini fu per Balbo il segnale per avviare a realizzazione i suoi grandiosi piani di colonizzazione intensiva e per completare gli ultimi passi giuridici necessari per creare la «quarta sponda».[36]Anche Angelo Del Boca rileva come ormai per il governo fascista in quella fase storica la Libia non è soltanto costa mediterranea: è l'Impero. Tutto il sistema a cui è affidata la sorte dell'Italia d'oltremare, ha come perno la Libia. [37]Varate le riforme dell’ordinamento amministrativo ed avviate le opere di costruzione delle infrastrutture, Balbo aveva in mente un modus operandi capace a suo giudizio di giungere alla realizzazione di una nuova società coloniale in linea con le direttive ideologiche espresse dal regime, un percorso che coniugasse tutta una serie di misure economiche per l’avvaloramento dei territori destinati alle attività delle popolazioni indigene, accompagnate simultaneamente da misure politiche tali affinché l’inquadramento dell’economia si attuasse nella forma corporativa ed il raggruppamento delle persone avvenisse contemporaneamente in seno alle organizzazioni del partito fascista.[38] In sintesi, provvedimenti che fossero capaci di pervenire ad un certo sviluppo economico, culturale e sociale della popolazione araba non disgiunto però dall’imprescindibile esigenza di controbilanciare la presenza dei “vecchi libici” con una massiccia ondata di “nuovi libici” provenienti dall’Italia, poiché come egli affermava ... é assolutamente necessario che in un lasso di tempo relativamente breve in Libia si opponga alla massa degli autoctoni un blocco considerevole costituito da nazionali, che non mancheranno, coi mille tentacoli dei loro interessi, di controllare, in ogni senso, le quattro province.[39]Soltanto partendo concretamente da una siffatta realtà sociale si sarebbe pervenuti secondo Balbo alla possibile e realistica realizzazione di una società nuova che egli con retorica compiaciuta così amava descrivere ... noi avremo in Libia non dominatori e dominati, ma italiani cattolici e italiani mussulmani, gli uni e gli altri uniti nella sorte invidiabile di essere gli elementi costruttori di un grande potente organismo, l’Impero Fascista.[40]

I piani per la colonizzazione.

Per realizzare il progetto coloniale totalitario dell’impero fascista italiano, occorreva aumentare e consolidare stabilmente, almeno su tutto il territorio della fascia costiera, la presenza dei coloni provenienti dall’Italia; i soli, secondo i piani che il Governatore intendeva realizzare, che avrebbero potuto creare quella rete di “legami e interessi reciproci” capaci di realizzare i necessari ed indissolubili vincoli tra arabi ed italiani, secondo una prospettiva che privilegiasse ovviamente questi ultimi. Già dal 1923 Balbo sosteneva: Se l'avvenire ci permetterà di cingere le colonie d'Africa d'una cintura di villaggi, abitati dai novelli pionieri, noi avremo risolto il problema militare coloniale.[41]I coloni erano poi una necessità economica. La Libia non offriva nulla, né importanti materie prime, né risorse minerarie, né industrie o commercio, niente tranne la sua misera agricoltura.[42]Sulle spalle di quelle che vennero enfaticamente definite truppe rurali, il cui primo compito sarebbe stato quello di usare la vanga ma un domani se necessario di imbracciare eventualmente il fucile, gravava dunque interamente il compito di erigere e tradurre in fatti l’idea della “Quarta sponda” dell’Italia “proletaria e fascista”. La situazione generale della colonia, nel medesimo anno in cui Mussolini effettuò la visita per l’inaugurazione della strada litoranea, in relazione alla presenza italiana nonché all’utilizzo ed alla distribuzione dei terreni, veniva efficacemente rappresentata nel censimento generale dell’agricoltura. Esso mostrava chiaramente un’espansione della presenza agricola coloniale metropolitana, proprio durante la fase di transizione dalla grande concessione capitalista alle imprese di media e piccola grandezza, calcolando una popolazione agricola di 2711 famiglie, pari ad un totale di 12.288 persone, delle quali più dell’80% risultavano direttamente coinvolte nel lavoro della terra. Il quadro d’insieme della situazione mostrava che le grandi concessioni capitaliste occupavano ancora la maggior parte delle superfici coltivate, anche se un nuovo dato, in controtendenza rispetto al passato, ma in linea con i piani futuri, era quello rappresentato dall’aumento delle piccole proprietà della colonizzazione demografica, che già mostravano nell’insieme di avere un crescente peso. In generale, il quadro della colonizzazione agricola per il 1937 rilevava che poco più del 37% delle terre coloniali appartenevano al demanio, con appezzamenti la cui estensione variava dai 10 ai 50 ettari e nei quali circa 700 famiglie lavoravano in quelle cascine sviluppate e gestite tramite gli organismi della colonizzazione diretti dallo Stato fascista. [43] Dunque, un risultato positivo se paragonato con gli effetti delle iniziative varate nel precedente periodo dal governatore De Bono, ma ampiamente insufficiente se analizzato nella prospettiva totalitaria maturata dal Regime e fatta propria dall’ex “ras di Ferrara” il quale, mettendo da parte qualsiasi indugio, appariva ormai seriamente deciso a … pensare alla colonizzazione demografica intensiva e a lavorare ad un piano a lungo termine che prevede l'insediamento di 20 mila coloni all'anno per un periodo di cinque anni. Balbo presenta a Mussolini questo piano,[...] verso la fine del 1937. Il piano incontra subito l'interesse del duce e ben presto anche la sua approvazione. Come ricorda Lessona, Mussolini era rimasto particolarmente colpito, durante il suo viaggio in Libia del marzo 1937, dalla immensa piana di Barce, dissodata dall'E.C.L. e rigogliosamente verde. A Lessona, che gli decantava la fertilità del Gebel cirenaico, Mussolini aveva risposto: Mi avete convinto. Allora si fa immediatamente la colonizzazione in grande.[44] Come mostravano chiaramente i dati del censimento vi era però ancora un importante nodo da sciogliere, ovvero quello rappresentato dalle vecchie concessioni capitalistiche di tipo latifondista. Balbo era il primo a rendersi conto che il sistema del latifondo ricevuto in eredità avrebbe dovuto cedere il passo ad un sistema per cui i sacrifici finanziari del governo si sarebbero rivolti ad “esclusivo favore dei veri lavoratori della terra”, un sistema indirizzato a principi essenzialmente sociali.[45]Fu così che il “maresciallo dell’aria”, forte dell’avallo di Mussolini ed in linea con gli inevitabili sviluppi che la situazione ampiamente matura ormai richiedeva, volle indirizzare definitivamente la colonizzazione libica verso la colonizzazione demografica intensiva, che venne attuata principalmente attraverso l' E.C.L. e l'INFPS. [46]  Il progetto fu varato ufficialmente il 17 maggio del 1938 con il Regio Decreto Legge n° 701, nel quale veniva specificata tra l’altro l'urgente e assoluta necessità di adottare misure straordinarie per sostenere la colonizzazione demografica. [47] Esso coinvolse la totalità delle componenti presenti nella società coloniale, con la precisa finalità di raggiungere un sostanziale equilibrio fra la popolazione metropolitana e quella araba, tenuto conto del rapporto demografico sfavorevole agli italiani, in favore dei quali il programma prevedeva l’accoglienza di quarantamila nuovi coloni in due anni ( di fatto scesi successivamente a trentamila ), preludio ad una meta assai più ambiziosa che contava di poter arrivare ad installare per la metà del secolo una popolazione il cui numero complessivo sarebbe dovuto ammontare a circa cinquecentomila metropolitani. Balbo così ... annuncia il grande progetto nel maggio del 1938 e sei mesi dopo i primi ventimila coloni sbarcano in Libia. In appena sei mesi, mobilitando 10 mila operai italiani e 23 mila libici, i due enti colonizzatori, sotto la guida energica di Balbo, costruiscono decine di villaggi rurali e centinaia di case coloniche, strade e acquedotti, mentre provvedono alla delimitazione di 1800 nuovi poderi. Ogni fattoria, tinteggiata in bianco e di semplice architettura, è dotata: a) di una casa colonica composta di un tinello, tre stanze da letto e i servizi igienici; b) di una stalla retrostante, separata dalla casa, e di un magazzino. La stalla può ospitare quattro bestie da lavoro e ha annessa una concimaia; c) di un pozzo di prima falda e di una cisterna per raccogliere l'acqua piovana.[48] Ovviamente, precipuo compito del governo centrale, coadiuvato da quello della colonia, fu quello di scegliere, trasportare e sistemare centinaia di famiglie in fattorie previamente allestite, il tutto naturalmente a spese dell'erario. Tale politica si armonizzava con l'ideale fascista di uno stato totalitario benefico, portatore di ordine, disciplina e benessere fin nella vita dei suoi più umili cittadini.[49] La selezione della prima ondata di coloni non si era però rivelata un compito semplice occupando per tre mesi apposite commissioni mediche scelte per l’occasione che presero in esame 6.000 famiglie che avevano fatto domanda di ammissione al programma di colonizzazione. La selezione è stata compiuta in tre mesi da tre Commissioni ambulanti, nominate dal Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione, costituite da tecnici agricoli, sanitari e amministrativi. La media della composizione delle 1.800 famiglie (1.000 sono destinate in Tripolitania e 800 in Cirenaica) è di 9,01 e cioè tre unità maschili lavorative, due o tre unità femminili e il resto ragazzi dai tre ai 15 anni [...]. Le famiglie coloniche sono fornite da 750 comuni e provengono per la maggior parte dal Veneto, dall'Emilia, dalle province lombarde di Mantova, Brescia e Bergamo, dagli Abruzzi, dalla Puglia, dalla Calabria e dalla Sicilia. Il Commissariato che organizza le grandi partenze ha disposto un accompagnatore ogni venti famiglie, che le dirigerà dal luogo di origine alle case a ognuna di esse destinate in Tripolitania e in Cirenaica [...]. Le famiglie sono così ripartite nei diversi villaggi: Tripolitania (Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale): 100 famiglie all'Oliveti, 75 al Bianchi, 111 al Giordani, 120 a Tarhuna; (Ente per la Colonizzazione della Libia): 37 all'Oliveti, 320 al Crispi, 100 al Gioda, 110 al Breviglieri e 21 all'Azizia. Cirenaica: 176 al Barca [Barce], 210 all'Oberdan, 60 al D'Annunzio, 120 al Battisti, 39 allo Zorda, 81 al Maddalena, 25 al Razza, 40 al Deda [Beda], 35 allo Slonta, 15 al Faidia, 66 al Savoia [Luigi di Savoia], 35 al Berta [...]. Successivamente l'imponente programma di colonizzazione demografica avrà nuovi sviluppi e l'opera di alta civiltà realizzata dal Regime contribuirà efficacemente al raggiungimento dell'autarchia economica della Nazione.[50]Riguardo i luoghi d’origine dei coloni, contrariamente alle speranze ed ai propositi più volte manifestati dai vari governi che si erano succeduti, risulta chiaramente che la maggioranza delle famiglie selezionate provenissero dal Nord Italia. [Arriveranno alle stazioni genovesi] le famiglie dei lavoratori lombardi con 111 persone di Bergamo, 213 di Brescia, 464 di Mantova [...] da Aquila con 320 persone [...] di Castelsampietro con 223 persone, di Padova con 562, di Cittadella con 116, di Portogruaro con 525 e di Mestre con 325. [...] La tradotta di Montagnana con 562 persone, di Este con 850 e di Monselice con 542 [...] di San Donà di Piave con 850 unità [...] di Chioggia con 160 unità, Rovigo con 318, Padova con 239, Vicenza con 224 [...] un'altra di Vicenza con 920 persone [...] un'altra ancora di Rovigo con 920 persone [...] quella di Udine con 382 e di Trento con 43 [...] una terza da Rovigo con 920 persone [...] di Treviso con 897 [...] di Forlì con 145, di Bologna con 260, di Modena con 515 [...] di Ferrara con 353, Reggio Emilia con 468, Parma con 94 [...] un'altra di Ferrara con 930 persone. Alla stazione di Napoli [...] la tradotta di Catanzaro con 230 persone e di Cosenza con 136 [...] quella di Teramo con 68 persone, Pescara con 187. Aquila con 125: Chieti con 196 [...] quella di Lecce con 11 persone. Bari con 481 e Foggia con 235. Alla stazione centrale di Siracusa [...] la tradotta di Agrigento con 111 persone. Caltanissetta con 145: Ragusa con 196 [...] di Reggio Calabria con 128 persone, Messina con 68, Enna con 137 e Catania con 162.[51] Tale distribuzione regionale non subì alcuna sostanziale inversione di tendenza in occasione della seconda migrazione avvenuta nel 1939, come si evince chiaramente dalla lettura del seguente articolo. Le famiglie rurali destinate alla colonizzazione libica per l’Anno XVII sono state prescelte in quelle regioni ed in quelle province che all’atto del contingentamento presentavano un maggiore indice di pressione demografica. Le domande presentate dai richiedenti sono state esaminate e documentate dalle Federazioni fasciste delle province le quali hanno accertato che le famiglie fossero scelte fra quelle più bisognose e risultassero fornite dei voluti requisiti tecnici, politici, morali e sociali. Sulle proposte formulate dalle Federazioni dei Fasci ha operato la definitiva operazione il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione, accertando l’esattezza dei requisiti predetti e la corrispondenza alla composizione numerica familiare prestabilita dal Governo generale della Libia e dagli Enti di colonizzazione alla capacità produttiva dei poderi predisposti. Le province di reclutamento hanno fornito i seguenti contingenti: Padova 203 famiglie con 1501 componenti; Treviso 193 famiglie con 1449 componenti; Venezia 116 con 1251; Udine 102 con 775; Vicenza 83 con 593; Verona 81 con 589; Mantova 32 con 209; Brescia 24 con 184; Belluno 18 con 131; Trento 7 con 45; Benevento 48 con 355; L’Aquila 47 con 341; Avellino 41 con 294; Campobasso 24 con 240; Napoli 28 con 200; Chieti 26 con 194; Frosinone 23 con 164; Pescara 21 con 157; Teramo 7 con 57; Palermo 29 con 217; Ragusa 27 con 176; Messina 22 con 155; Siracusa 21 con 130; Caltanissetta 19 con 138; Catania 15 con 103; Agrigento 13 con 95; Enna 13 con 93; Trapani 10 con 67; Modena 2 con 19; Catanzaro 1 con 9; Cuneo 1 con 9. Totale 1456 famiglie con 10.907 componenti.[52] I piani inerenti la logistica, l’organizzazione nonché la realizzazione del trasferimento dei coloni, in entrambe le migrazioni pianificate nel biennio 1938-1939, furono eseguiti puntualmente, con partenze programmate ogni anno nella ricorrenza del 28 ottobre, anniversario della “Marcia su Roma”, portando così in effetti sulle coste della Libia circa trentamila metropolitani, che furono sistemati nei terreni demaniali bonificati appositamente. Gli agricoltori furono accolti nei villaggi e comprensori di colonizzazione sviluppati in maggioranza lungo la strada litoranea dall’ I.N.F.P.S. e dall’E.C.L. che, coadiuvati dai servizi tecnici del governo e degli uffici di colonizzazione, avevano vigilato sul completamento di tutte le infrastrutture e lo sviluppo della bonifica dei terreni pur disponendo di un periodo assai breve, allestendo inoltre l’allargamento dei terreni coltivabili in zone agricole scelte in precedenza e lo sfruttamento di nuove zone in vista del crescente numero dei “nuovi libici” in arrivo. I due Enti, seguendo ormai la prassi consolidata negli anni precedenti, programmarono la regolare suddivisione dei terreni in piccoli lotti provvedendo come di consueto all’assistenza dei coloni nella coltivazione dei loro poderi, dopo che questi ultimi erano stati naturalmente sistemati nelle loro nuove case dotate delle necessarie riserve. L’ammontare totale della cifra che venne versata dallo Stato per tale piano fu calcolata in 945 milioni di lire, dei quali 321 furono destinati ai grandi lavori di sviluppo generale realizzati direttamente dal governo, tra cui i lavori idraulici consistenti in 2 grandi acquedotti e 35 pozzi artesiani con relative strutture annesse. Sarebbero stati inoltre realizzati 250 chilometri di strade con le relative linee di comunicazione, così come i primi nuclei di 20 nuovi villaggi agricoli. Una quota di 380 milioni fu invece destinata alla realizzazione di case rurali ed alla sistemazione dei terreni agricoli trasformati da steppe in terreni arabili. La somma restante avrebbe dovuto coprire l’organizzazione tecnica dell’operazione ed i contributi previsti per la legge di bonifica, che avrebbero dovuto essere versati dallo Stato nei primi due anni dell’operazione.[53] Complessivamente alla morte di Balbo, avvenuta il 28 Giugno del 1940, a diciotto giorni di distanza dall’ingresso in guerra dell’Italia nel Secondo conflitto mondiale, l’opera di avvaloramento dei territori libici superò tra imprese private e colonizzazione ufficiale, i 200.000 ettari. Nella Cirenaica erano sorti dieci villaggi, oltre varie concessioni e aziende private, con 2755 famiglie (oltre 10.ooo componenti). Sette villaggi costruiti in Tripolitania dall'Ente di colonizzazione della Tripolitania presso Misurata, Azizia e Tarhuna e altri nove costruiti per opera dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, senza contare le concessioni private e quelle dell'Azienda tabacchi italiana al Garian che accoglievano 3960 famiglie con 23.919 componenti.[54] Il piano di bonifica pertinente la sola colonizzazione demografica italiana negli anni 1938-39 avrebbe interessato una superficie di circa 133.000 ettari suddivisi a loro volta in terreni estesi dai 15 ai 50 ettari, con relativa fattoria annessa, il tutto in ragione sia della disponibilità d’acqua che del tipo di coltivazione. [55] Per ciò che riguardava i provvedimenti presi in favore della popolazione araba nel programma di colonizzazione agraria negli anni 1939-1940 furono inaugurati in Cirenaica i villaggi musulmani di Zahra (Fiorita), el-Fager (L'Alba), Chadra (Verde), Nahida (Risorta), Gedida (Nuova), Mansura (Vittoriosa); in Tripolitania furono inaugurati i villaggi di: Mahamura e Naima. [56]Furono inoltre destinati 1.400 ettari di terre ai contadini libici, anche se allo stato attuale delle ricerche risultano effettivamente assegnati solamente 500 ettari circa, con lotti la cui estensione variava dai 2 ai 10 ettari.[57] Riguardo l’assegnazione di case e terreni di questi villaggi abbiamo notizie certe solo riguardo 32 famiglie residenti ad Alba e Fiorita, mentre a Mahamura si è al corrente di 100 poderi occupati da altrettante famiglie.[58] Va comunque riconosciuto che l’insieme dei suddetti provvedimenti non poté mai considerarsi pienamente operativo, sia a causa dell’iniziale diffidenza delle popolazioni autoctone che, successivamente, dell’impossibilità di procedere ulteriormente nella realizzazione integrale di tali piani in ragione dell’esito negativo che la guerra ebbe per l’Italia fascista, con l’ invasione del 1941 e l’occupazione integrale definitiva della Libia da parte degli eserciti del commonwealth britannico del 1943.

Conclusioni.

Le direttive generali del programma di colonizzazione per il 1940 dovettero tenere conto necessariamente dell’esperienza maturata nel biennio precedente nonché, cosa ancor più importante, della progressiva riduzione dei terreni adatti alla coltivazione, un fattore al quale inoltre non poteva andare disgiunta la riconosciuta necessità di tutelare l’interesse degli indigeni mussulmani libici. Il programma pertanto prevedeva di:

a) Spingere con adatti provvedimenti legislativi i concessionari privati capitalisti verso il popolamento agricolo delle rispettive concessioni. b) Dare agli Enti nuove terre ricercando, finché possibile, zone steppiche tenendo presenti le possibilità di indemaniamento che debbono salvaguardare le necessità delle popolazioni locali. c) Incamerare a favore degli enti concessioni private secondo modalità da studiare dalla commissione.[59]

Ma in pieno clima di guerra incombente, con un dirottamento pressoché generale delle finanze pubbliche verso altri settori riguardanti prevalentemente le necessità belliche, era inevitabile che tale piano venisse da principio drasticamente ridotto e poi sospeso del tutto per non essere successivamente mai più ripreso.[60] Nell’esprimere un giudizio finale sul processo di colonizzazione demografica in Libia, la maggioranza degli storici hanno fornito un bilancio complessivamente negativo della vicenda, minimizzando l’impatto negativo che la guerra mondiale ebbe su di esso ed attribuendo il reale fallimento di tale progetto alle scelte strategiche errate elaborate dal regime fascista ben prima dello scoppio delle ostilità con le potenze alleate, a riguardo non è inusuale imbattersi in affermazioni come questa: Il ragionamento più tardi avanzato dagli apologeti, per cui la colonizzazione « demografica » sarebbe abortita solo per l'arrivo della guerra, appare senza fondamento: gli errori e gli insuccessi erano precedenti, come dimostra l'affannoso cambiamento di strategie nello spazio di pochi anni. Uno studioso critico ha rilevato che le alte spese del regime e gli scarsi risultati raccolti dalla colonizzazione agraria della Libia, la quale peraltro interessò solo una frazione della popolazione italiana residente nella colonia, furono « indicative solo dello spreco, degli investimenti e delle scelte sbagliate » del fascismo, piuttosto che dei suoi sforzi di valorizzare la Quarta sponda.[61] E’ fuor di dubbio che il Regime, anche per quel che concerne la vicenda coloniale in questione, nel tentativo di realizzare gradualmente il proprio peculiare modello politico organizzativo,[62] con Mussolini intento a fungere da arbitro alla ricerca di un sostanziale equilibrio fra gli orientamenti espressi dai gerarchi del Partito Fascista, rispecchiando in ciò le dinamiche interne della politica nazionale, oscillò, secondo quanto abbiamo avuto modo di osservare, da un’iniziale azione di sostegno all’iniziativa privata sostanzialmente di segno liberista ad una politica economica statalista di stampo corporativo-dirigista, come si evince chiaramente dall’enorme sforzo compiuto dallo Stato fascista descritto nelle pagine precedenti e profuso nel progetto di integrazione dei territori libici nel circuito politico ed economico italiano. Occorre però altrettanto chiaramente precisare alcuni dati, in particolare di natura demografica ed economica, da contestualizzare in relazione ad una diversa prospettiva di analisi riguardante le effettive esigenze primarie del governo fascista. Dati che finiscono col caratterizzarne il modus operandi per un indiscutibile primato attribuito agli obiettivi di natura ideologica della politica totalitaria del Regime, piuttosto che alle opportunità ed alla reale convenienza suggeriti dall’analisi dei semplici dati economici riferiti alle concrete potenzialità del territorio libico. Ebbene, per ciò che attiene la presenza quantitativa degli italiani in Libia appare indubbio il notevole e consistente accrescimento numerico dei cosiddetti metropolitani, la cui popolazione risultava più che quadruplicata nel giro di meno di un ventennio. Dai 27.163 abitanti presenti nel 1921 si arriva infatti a registrare la considerevole cifra di 128.264 abitanti rilevati nel marzo del 1940 alla vigilia dell’ingresso in guerra dell’Italia, una cifra che sappiamo peraltro destinata a crescere ancora per qualche tempo ( alla fine del 1940 erano 140.000 i civili italiani presenti sulla “quarta sponda” a fronte di 30.000 israeliti e 850.000 libici registrati ).[63] Un elemento al quale bisogna necessariamente accorpare anche l’evidente crescita della popolazione indigena mussulmana rispetto agli anni precedenti.[64] Tutti fenomeni di sviluppo che manifestano l’incremento demografico più significativo a partire dall’avvio della politica di gestione diretta da parte dello Stato fascista con i piani di colonizzazione demografica, significativamente concomitanti all’arrivo in colonia del governatore Balbo ed all’inaugurazione delle grandi opere pubbliche. Tali opere, in riferimento alla relazione presentata dal ministro Teruzzi alla fine del mese di Novembre del 1939, venivano così ampiamente illustrate: Veramente importante è il complesso delle opere pubbliche di questi ultimi due anni, ciò soprattutto per la grande mole dei lavori richiesti dall’attuazione dei piani della colonizzazione demografica intensiva. Per consentire facili e rapide comunicazioni con i villaggi agricoli sono state e vengono costruite numerose strade massicciate attraversanti i comprensori di colonizzazione per uno sviluppo complessivo di circa 380 Km. A tali strade si raccordano numerosissime piste interpoderali. Di particolare importanza è la strada di accesso all’approdo di Ras Hilal, costruita con le stesse caratteristiche della litoranea libica e con un tratto svolgentesi in galleria strada che costituisce l’arteria di sbocco al mare in gran parte delle zone appoderate nel Gebel cirenaico. Per lo sfruttamento dei sali potassici di Marada e per facilitare il trasporto del minerale alla costa da dove verrà imbarcato per l’Italia è in costruzione un tronco di strada [...] Recentemente è stata ultimata la strada a fondo artificiale che attraversando la Gefara [...] unisce il porto di Zuara con il territorio del Gebel Nefusa innestandosi nella rotabile di Nalut nei pressi di Giosc. Sono stato costruiti vari altri tronchi stradali locali ed è stata migliorata ed aumentata la vastissima rete di piste a fondo naturale. Fra gli acquedotti per il servizio della colonizzazione ha importanza veramente notevole quello del Gebel cirenaico già in corso avanzato di costruzione, con uno sviluppo di ben 198 Km. Oltre a varie reti di distribuzione porterà le acque delle sorgenti di Ain – Mara, presso Derna, della portata di 5000 metri cubici giornalieri a tutte le zone di colonizzazione del Gebel sino ai più lontani villaggi di Baracca e Filzi a ponente di Barce. Nella Libia occidentale hanno poi considerevole importanza gli acquedotti di Breviglieri e Marconi. Per il rifornimento di acqua potabile nei principali centri abitati sono stati eseguiti lavori notevoli, fra i quali lo sviluppo della rete idrica di Bengasi e soprattutto il completamento dell’acquedotto di Tripoli che oggi può disporre di circa 19.000 metri cubi giornalieri di acqua ottima di seconda falda. Numerosissimi sono poi i pozzi artesiani ed i pozzi di prima e seconda falda scavati nei villaggi di colonizzazione e nelle concessioni dei privati. Particolari cure sono state rivolte al potenziamento dei porti esistenti ed alla creazione di nuovi approdi. Nel porto di Tripoli è stato iniziato nel 1937 e viene condotto con ritmo accelerato un vasto programma di escavazione tanto che è ora possibile ai maggiori transatlantici di entrare nel porto e affiancarsi alla banchina. E’ pure in corso la costruzione di nuove banchine allo scopo di aumentare la potenzialità commerciale del porto. Lavori di ampliamento sono inoltre in corso nel porto di Bengasi, un pontile di attracco in cemento armato della lunghezza di 160 metri è stato costruito a Ras Hilal [...]. Oltre alle scuole comprese nei villaggi altri 28 edifici scolastici sono sorti nei diversi comprensori di colonizzazione, mentre nuove scuole primarie secondarie sono state aperte a Tripoli, Bengasi, Derna e Misurata, scuole italo-arabe a Jefren, Tauorga, Tigrinna, Zavia, Augila. Sono stati completati gli ospedali di Tripoli e Bengasi ora dotati di modernissimi laboratori di igiene e profilassi e sono in corso i lavori di ampliamento per quelli di Barce e Misurata. Di recentissima costruzione sono il manicomio per mussulmani ed il sanatorio dell’I.N.F.P.S. a Tripoli. Lo sviluppo edilizio dei maggiori centri della Quarta Sponda è stato in questi ultimi anni veramente notevole. Basterà accennare che le imprese edili in 4 anni sono aumentate del 20 % con un aumento delle maestranze nazionali impiegate del 300 % . Nuovi importanti edifici pubblici sono sorti e in relazione alle sempre crescenti necessità edilizie sono stati elaborati ed approvati i nuovi piani regolatori, non solo dei principali centri urbani, ma anche di molti altri centri minori. [65] Per ciò che attiene le realizzazioni nel campo dell’industria nella medesima relazione viene specificato che ... le industrie chimiche trasformano i prodotti dell’agricoltura e sono costituite per lo più da distillerie, stabilimenti per l’estrazione di oli dalle sanse, raffinerie di oli vegetali. Gli stabilimenti, in numero di 75 nel 1936, sono saliti nel 1939 a 90. Il Governo si è particolarmente interessato dell’industria molitoria prima quasi inesistente. Oggi l’industria molitoria può far fronte a quasi tutto il fabbisogno di farina della Libia, e nell’anno prossimo, con l’impianto in corso di esecuzione di due grandi molini uno a Tripoli della capacità di 1000 quintali giornalieri ed uno a Bengasi per 300 quintali al giorno, non più un sacco di farina verrà importato dal Regno. Correlativamente all’industria molitoria è stato dato particolare incremento ai pastifici, sicché il fabbisogno interno di pasta è già raggiunto per la Libia occidentale e lo sarà entro il venturo anno per la Libia orientale. Con molta accuratezza è stato studiato il problema dell’impianto di oleifici che in Libia sono 61 tra industriali ed artigianali. Due grandi stabilimenti per estrazione di olio al tricloruro hanno assorbita tutta la produzione locale, e oltre ad aver fornito ai saponifici libici la materia prima necessaria hanno esportato quest’anno nel Regno 6000 quintali di olio destinato alle industrie nella Madrepatria. Le distillerie di alcol a carattere artigianale ed industriale hanno segnato un incremento di 7849 ettanidri sulla produzione dello scorso anno raggiungendo 2.970.14 ettanidri. Si è così ottenuto un esubero di produzione in confronto alle esigenze locali. Nel campo della pesca del tonno si è avuta nel 1937 una produzione di 942.100 Kg. nel 1938 di 866.700 Kg. e nel 1939 di 916.120 Kg. La pesca delle spugne nel 1939 ha raggiunto i 98.433 Kg. E l’esportazione di tali prodotti è pari alla produzione. Le esportazioni di pesca comune hanno raggiunto nel 1939 i 10.001 quintali per Lire 7.123.715. Tra le industrie va segnalata in primo luogo l’industria di estrazione di sali potassici. La società I.L.I. concessionaria del bacino di Marada ha costruito i primi impianti è iniziato una campagna di prova terminata in questa estate con la produzione di 2100 tonnellate di sale potassico normale. In seguito a tali risultati la società stessa si è impegnata a fornire un minimo di 25.000 tonnellate annue di sale potassico a partire dal 1940, nonostante che difficoltà di trasporto ancora incidano sullo sviluppo integrale di tale industria. Importante per lo sviluppo assunto in questi ultimi anni appare la raccolta e la produzione dell’alfa e dello sparto destinati alle cellulose. La nuova organizzazione S.A.R.S.A. a carattere parastatale è passata da una esportazione pressoché nulla nel 1936 di 2065 quintali inviati in Italia e quintali 29264 inviati all’estero nel 1937a 64.358 quintali inviati in Italia e 9570 inviati all’estero nel 1938. Nella stagione 1938-39 sono stati manipolati 4531 Kg. di sigari e 436.710 Kg. di sigarette; le esportazioni in questo periodo hanno raggiunto i 27.950 Kg. di tabacco lavorato. Molto migliorate sono apparse le recenti produzioni sia come qualità del prodotto dovuto all’affinamento della tecnica degli agricoltori sia come lavorazione e stagionatura. La produzione laniera del 1937 in Libia è stata di 9850 quintali, nel 1938 ha raggiunto i 10.800, per il 1939 è in corso l’ammasso del prodotto. Tutta la produzione laniera libica è esportata in Italia salvo pochi quantitativi di cui si cura la lavorazione sul posto. L’esportazione di pelli secche nel 1937 e stata di 10.781 quintali, nel 1938 di 12.732. Come produzione media annua può contarsi su 30.000 pelli bovine, 270.000 ovine, 200 caprine, 4000 cammelline. [...] Il movimento turistico in questi ultimi anni è andato continuamente aumentando, avendo a ciò contribuito le grandi opere compiute dal Regime e la propaganda svolta dall’Ente turistico alberghiero. Basterà accennare che nella stagione 1938-39 sono giunti in Libia un totale di 20.000 turisti in crociera e comitive, 45.034 viaggiatori isolati di cui 16.578 stranieri. a natura geologica dei terreni delle province libiche non può a priori dare affidamento di ritrovamenti sensazionali di giacimenti minerari. Ricerche sistematiche su vasta scala sono ancora in corso nella Sirtica dal mare fino al 29° parallelo per la valutazione dei piani fosfatiferi di quella zona. Sulla scorta di alcune manifestazioni di idrocarburi gassosi avute nelle trivellazioni di pozzi per la ricerca di falde artesiane profonde in Libia occidentale, sotto la sorveglianza degli uffici tecnici governativi l’Agip ha iniziato da più di un anno ricerche geopetrografiche per la conoscenza del sottosuolo. Finora sono state eseguite sette perforazioni di ricognizione ad una profondità variabile tra i 350 ed i 400 metri ed è in corso un sondaggio attualmente alla profondità di 600 metri che dovrà raggiungere i 1.500. E’ pure in corso di attuazione un programma di studio sistematico geo-metrografico preliminare del sottosuolo della regione marmarica. Si sono iniziate le ricognizioni e un saggio per l’identificazione di strati manganesiferi nella Libia occidentale. Sono stati identificati stratificazioni di silice quarzosa da vetri e cristalli, allo stato di quasi purezza si da rivaleggiare con le migliori silici di provenienza estera impiegate attualmente dalle industrie vetrarie in Italia. Due concessioni di sfruttamento sono in atto. [66] Infine sul piano della resa agricola i dati appaiono altrettanto considerevoli, mostrando un notevole incremento quantitativo in tutti i settori. Complessivamente la produzione granaria della Libia aggiratesi nel 1937 a circa 150.000 quintali è salita nel 1938 a più di 352.000 quintali. Quest’anno nonostante le avverse condizioni atmosferiche si aggira sui 250.000 quintali. Le produzioni della vigna e dell’ulivo hanno dato risultati che permettono di ben sperare in un prossimo avvenire. La produzione vinicola di 32.232 ettolitri nell’anno 1937 è passata a 60.434 ettolitri nel 1938 e ad ettolitri 80.000 nel 1939. La produzione olearia ha dato nel 1937 23.683 quintali di olio e nel 1938 30.924. Molto migliorata è la situazione della agrumicoltura e sono in corso esperimenti importanti per la coltura del cotone. ...] I prodotti ortofrutticoli hanno raggiunto nell’annata 1938-39 i risultati soddisfacenti che qui riassumo: 13.000 quintali di patate, 40.000 di legumi secchi, 16.000 di cipolle ed aglio, 130.000 verdura fresca, 18.900 quintali di frutta fresca, 22.000 di agrumi. La produzione di datteri per il 1938 è stata di 92.500 quintali. Vengono esportati annualmente quantitativi di agrumi, pomodoro, uva fresca, mandorle sgusciate, datteri e pasta di datteri. [...] Completo riassetto ha avuto in questi due anni l’attività forestale. Occorre accennare al riguardo che nel biennio 1938-39 si è provveduto al rimboschimento di 114.174 ettari.[67] Per il 1940 i dati parziali dei raccolti, privi del computo della produzione cerealicola ed ortofrutticola, attestano che … in Tripolitania [...] su 75.250 ettari coltivati ad oliveto, con 2.226.500 alberi, si ebbero 5.500 quintali di olio dalle piante non ancora integralmente produttive, e da 60.000 a 80.000 quintali, a seconda dell’annata, da quelle in piena produzione; su 15.000 ettari coltivati a vigneto, con 36.826.500 viti, si ebbero 130.000 quintali di vino dalle piante non ancora integralmente produttive, e da 180.000 a 200.000, a seconda dell’annata, da quelle in piena produzione. In Cirenaica, [...] su 6272 ettari coltivati ad oliveto, con 196.813 alberi, si ebbero 9000 quintali di olio dalle piante non ancora integralmente produttive, e da 25.000 a 30.000 quintali, secondo l’annata, da quelle in piena produzione; e su 1.782 ettari coltivati a vigneti, con 3.280.000 viti, si ebbero 28.000 quintali di vino da quelle non ancora integralmente produttive, e da 50.000 a 60.000 quintali da quelle in piena produzione.[68] Il complesso di tali risultati, stando ai dati fin qui riportati, consente di stabilire quanto in realtà il quadro generale della colonia fosse in piena evoluzione e con prospettive concrete di crescita e miglioramento. Un quadro economico-demografico che possiamo definire incoraggiante. In un tale contesto, appena al principio di una fase di sviluppo economico e di ripresa della crescita demografica, andrebbero certamente riconsiderate le conseguenze e gli effetti negativi sulla vita della colonia che ebbe l’ingresso dell’Italia fascista nel giugno del 1940 nella guerra mondiale, a cominciare dall’alterazione dei normali ritmi quotidiani di un territorio che, è bene non dimenticarlo, per gli approvvigionamenti dipendeva quasi totalmente dai collegamenti con la penisola italiana. In una nota databile ai primi mesi di guerra venivano esposti i principali problemi agrari che si presentavano in Libia, e che si potevano riassumere nella mancanza di braccia e nella mancanza di materiali :La valorizzazione agraria dei comprensori ha subito in questi ultimi tempi un notevole rallentamento dovuto a difficoltà di varia indole verificatesi nell'attuale momento e determinate, in gran parte, dallo stato di guerra. Ed invero, oltre alla rarefazione di braccia nei comprensori, conseguente al richiamo alle armi dei coloni, non è stato possibile provvedere tempestivamente all'invio in Libia delle varie specie arboree occorrenti per gli impianti previsti ”. Con il passare dei mesi l'analisi delle disfunzioni (che nel frattempo si erano venute moltiplicando e che influenzavano pesantemente la produzione) si precisa. A metà del 1941 la centrale elettrica del villaggio Bianchi funziona a regime ridottissimo, data la difficoltà di rifornimento di carburanti e lubrificanti, e l'acqua che permette di pompare dai pozzi è insufficiente alle colture irrigue. I poderi che possono usufruire dell'energia elettrica fornita dalla Società elettrica coloniale italiana (SECI) di Tripoli (soprattutto a Hascian e Oliveti, a Bianchi in misura ridotta) non si trovano in migliori condizioni: in effetti questa centrale è sovraccarica di irregolare funzionamento, anche per i continui bombardamenti aerei che, se non l'hanno ancora colpita, hanno più volte danneggiato le linee. Le macchine a motore elettrico, come alcune trebbie, risentono della situazione e la trebbiatura è ferma, ma la situazione non sarebbe differente con i motori a combustione, per l'irregolarità del rifornimento dei combustibili: è lo stesso per trattori, senza i quali non si potrà dissodare la terra per la campagna cerealicola 1941-42. Per mancanza di pezzi di ricambio è ferma la metà degli aeromotori installati, fondamentali per gli orti dei poderi sul Gebel: i contadini sono costretti ad andare a rifornirsi d'acqua facendo lunghi percorsi con i carri-botte, ma anche per questi mancano i pezzi di ricambio. La questione dei pezzi di ricambio si potrebbe risolvere in alcuni casi, ma quando si trovano su mercato vengono venduti a due o tre volte il prezzo di listino: il rivenditore [...] rifiuta di rilasciare la fattura, e la normale prassi amministrativa impedisce così l'acquisto. I muli mancanti non si possono sostituire per il prezzo elevatissimo che hanno raggiunto, ed il trasporto tra i comprensori è difficile per mancanza di mezzi, cosicché i capi azienda e i fattori non possono controllare come dovrebbero i lavori; neanche le comunicazioni da Tripoli arrivano in tempi utili, dal momento che, ad esempio, « la posta da Marconi e Corradini a Tripoli impiega da otto a dodici giorni ».[69] Se a quelli che potremmo impropriamente definire “normali disagi” in tempo di guerra si vanno ad aggiungere le conseguenze vere e proprie della cosiddetta guerra guerreggiata ... (le case coloniche sono invase da profughi della Cirenaica e anche dalle città della Tripolitania molte famiglie hanno cercato rifugio nelle concessioni, facendosi ospitare dai contadini, e turbando con la loro presenza sia l'economia dei comprensori che l'andamento dei lavori agricoli. Al caos contribuiscono gli accampamenti di unità dell'esercito sui terreni agricoli: l'esercito continua a requisire materiali, automezzi, trattori, tubazioni, e la guerra semina il panico tra la popolazione, con il timore dei bombardamenti aerei o con la psicosi dell'arrivo del nemico, come in occasione della tentata marcia su Tripoli delle truppe inglesi comandate da Wavell )[70]... appare logico che l’inevitabile conseguenza della particolare situazione venutasi a creare a causa del conflitto, a maggior ragione in virtù degli esiti disastrosi riguardanti le operazioni militari condotte delle truppe italiane, fu non solamente l’ovvia sospensione del progetto di colonizzazione demografica ...di fronte a questa disastrosa situazione non restava che ordinare di limitare ogni attività e spesa al puro indispensabile, in attesa della cessazione delle eccezionali contingenze [71]... ma in definitiva la totale paralisi dell’intera vita coloniale della Libia italiana. In conclusione, possiamo affermare che dall’analisi dei principali elementi rilevati in questa ricerca, ciò che risalta maggiormente del piano di colonizzazione demografica trasmessa dal regime fascista é la volontà politica dello Stato totalitario che, rivolgendosi a tutta la nazione italiana, si mostrava assai determinata nell’investire in un tale progetto ingenti forze, risorse e capitali secondo una precisa logica il cui obiettivo finale in nessun caso veniva dichiarato come rivolto al profitto economico, almeno nel breve e medio periodo. Scriveva infatti a tal proposito nel 1939 Armando Maugini, il già citato direttore dell'Istituto agronomico di Firenze per l'oltremare ... forse non tutti coloro che assistono alle grandiose vicende di questi anni, hanno idee sufficientemente chiare. Non le hanno di certo, ad esempio, coloro che piuttosto che vedere in ampiezza il fenomeno, nei suoi multiformi aspetti e nelle sue profonde e rivoluzionarie conseguenze, amano correre diretti all'esame di qualche particolare aspetto, quale ad esempio quello finanziario. I criteri coi quali correntemente si valuta la convenienza economica di una trasformazione fondiaria e agraria non possono applicarsi integralmente quando, non la messa in valore della terra sia in giuoco, ma la volontà di rendere abitabile e di aprire alla vita un territorio pressoché abbandonato. In questi casi, si devono riconoscere quelle finalità di ordine politico e sociale previste nel Regno dalla legislazione sulla bonifica integrale, ma deve essere anche possibile andare oltre i limiti fissati dalle leggi ed elevare la quota-parte di capitale concessa a fondo perduto dallo Stato.[72] Dal punto di vista politico, un tale comportamento mostrava di soggiacere chiaramente a necessità rispondenti a obiettivi ideologici, giammai vincolati da finalità speculative a scopo di lucro, tantomeno da particolarismi regionali di sorta ma, al contrario, legati ad una peculiare concezione organica della società, dell’economia e dello Stato fondata sull’apertura al trascendente e proveniente dai valori etici espressi nella Dottrina del Fascismo, non a caso definita quale “concezione religiosa”. Nel caso della Libia, tale condotta contemplava anche la necessità di attuare traguardi geopolitici congrui alla propria visione imperiale, mostrando in tal senso un afflato ideale universale derivante dalla concezione politica spirituale fascista[73] che, come accadeva già nei riguardi della Chiesa Cattolica, era in grado di conciliarsi anche con l’Islam, fermo restando l’indiscutibile primato politico e sociale del P.N.F. Al riguardo, così si esprimeva nel 1940 l’ufficiale “Dizionario di politica” … Nella Libia, solidamente inquadrati nella vita politica italiana, i musulmani, recentissimamente ammessi alla cittadinanza, assistiti economicamente e fatti partecipi dell’opera di resurrezione agricola del paese, pur conservando pienamente, oltre alla libertà religiosa, lo statuto personale islamico, collaborano efficacemente con la metropoli. […] L’Italia, potenza musulmana ed africana, segue con il maggiore interesse il movimento arabo-musulmano; e già risolti con felici formule più problemi delle sue relazioni con i musulmani a lei soggetti, vede con soddisfazione, per sua natura e per suo interesse, il progresso del popolo arabo, con cui nella sua storia politica e culturale ha avuto tante relazioni. La coscienza viva dei fondamenti della vita musulmana, della intima natura della religiosità islamica e della tradizione culturale, specialmente araba, è non solo commento ma anche energia che indirizza e promuove tale sviluppo. La esperienza in quel campo non è curiosità vana, ma preparazione necessaria ad un alto compito degli uomini di scienza, collaborare cioè in modo non sostituibile ad interessi non solo particolari e nazionali, ma universali. [74] Il Regime, in definitiva, replicava e adattava all’oltremare, ormai considerato quale estensione vera e propria del territorio metropolitano, forme e formule politico-economiche di natura totalitaria adottate già in patria. Sul piano della prospettiva sociale si può ben sostenere che …la colonizzazione intensiva della Libia si sostituì allo sbocco rappresentato dall'Agro Pontino, praticamente saturo nel 1938; e anche se il volume della migrazione verso queste località può non essere stato sufficiente ad alleviare la disoccupazione, il semplice fatto che questi programmi esistessero assolse l'importante funzione di conservare un certo livello di consenso popolare per il regime. Sotto un altro profilo propagandistico, i fascisti furono anche in grado di citare, proprio come avevano potuto fare per l’Agro Pontino, gli elevati tassi di natalità delle colonie libiche.[75] Complessivamente tali valutazioni ci consentono pertanto di affermare che la colonizzazione demografica, prima che rappresentare un improbabile affare economico, costituì in realtà una specifica ed originale soluzione, elaborata nell’ambito ideologico della propria dottrina politica dal governo totalitario fascista rispetto ai problemi di natura economica e sociale che allora caratterizzavano la realtà italiana, ovvero il rimedio di un regime che non ammetteva limite alcuno alla propria volontà politica, se non ciò che essa stessa riconosceva come elemento immanente alla propria morale. Di più, come è già stato rilevato non a torto ... se ci furono ragioni o speranze di carattere economico e demografico, non sarà inopportuno sottolineare che preminenti ragioni di carattere strategico e militare sostenevano la politica fascista di popolamento della Libia nella seconda metà degli anni trenta. [...] la colonizzazione italiana avrebbe dovuto costituire la base del rifornimento alimentare del corpo d'armata che si prevedeva di istituire in Libia già dal 1937, mentre ancora all'inizio del 1940 Italo Balbo sosteneva la necessità di incrementare con nuovi arrivi la presenza italiana, in particolare sul Gebèl cirenaico, per «necessità di carattere politico militare ». A un livello emotivo e retorico l'immagine della colonizzazione di popolamento come fatto militare era promossa anche dalla propaganda del regime, che aveva frequentemente accostato le aquile imperiali ed i calzari possenti dei legionari della Roma antica alle immagini del lavoro degli agricoltori italiani nelle terre libiche. Come affermava un alto funzionario del ministero dell'Africa italiana nel secondo anno di guerra, Credo [...] che una più ampia e più chiara visione potrà affermarsi quando, superate le difficoltà del momento, la Libia riprenderà la sua sicura marcia, e gli uomini sapranno far sì che i suoi campi e le sue borgate siano “ non oppida Italiae sed propugnacula imperii! ”. [76]

Proprio in tale modo di procedere si potrebbero riconoscere, più in generale, i tratti distintivi del colonialismo fascista nella sua fase totalitaria più matura, ampiamente diffusi anche dalla stessa propaganda filo mussoliniana. [77] Dopo l’occupazione delle colonie italiane da parte delle truppe britanniche, infatti, alla maggior parte degli amministratori inglesi subentrati nella gestione dell’ex “quarta sponda”, pur riconoscendo i notevoli progressi ottenuti nel campo della produzione agricola derivanti dalla recente valorizzazione del territorio, ciò che era stato realizzato dall'Italia in Libia prima della guerra risultava incomprensibile, nel migliore dei casi, ovvero dettato da follia di grandezza: in tutti i casi appariva - così come era stata - un'operazione economica condotta in pura perdita, i cui epifenomeni più appariscenti erano una presenza di funzionari assolutamente pletorica ed un'ingiustificabile profusione di costruzioni monumentali. [78] In realtà, proprio tali caratteristiche stigmatizzate dai britannici come l’apparato governativo (affiancato da quello del Partito Fascista) capillarmente esteso a tutti i livelli della società, unito agli enormi investimenti in infrastrutture pubbliche sul territorio, tanto funzionali quanto esteticamente degne della tradizione monumentale di Roma, rientravano invece perfettamente nell’immaginario delle categorie espresse ufficialmente a livello ideologico-dottrinario dal totalitarismo fascista mussoliniano, per il quale ... tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo.[79] Un immaginario politico nel quale, come ha giustamente rilevato Emilio Gentile... Il culto della romanità era celebrato, modernisticamente, come mito d’azione per il futuro, mirante a creare una nuova civiltà per l’epoca moderna, solida e universale come la civiltà romana. I fascisti ritenevano la romanità fonte di ispirazione di virtù civiche, di senso dello Stato, di valori organizzativi universali cui attingere per elaborare un modello moderno di civiltà nuova, che si conciliava senza stridenti contraddizioni con altri aspetti propriamente futuristici del fascismo, senza nostalgie reazionarie per un passato da restaurare e un presente da preservare dal ritmo accelerato del movimento moderno.[80] In tal senso, romano era stato il proposito dello Stato fascista di riportare i lavoratori italiani ed il bagaglio della civiltà italiana in terra d’Africa, romano il senso della repressione spietata nei confronti della ribellione di Omar el Muktar, romana l’opera di bonifica e realizzazione di infrastrutture nella colonia così come l’associazione a tale processo di modernizzazione delle popolazioni locali che accettavano sinceramente il dominio dell’Italia fascista, il tutto nel rispetto di un imprescindibile ordine gerarchico che vedeva al primo posto l’Uomo Nuovo dell’Italia fascista nel ruolo di civilizzatore, così come primeggiava il civis romanus tra le varie genti dell’Impero di Roma. Dunque, parafrasando quanto già sostenuto dal Segré, si può affermare che tutto il complesso di risorse messe a disposizione dallo Stato totalitario fascista, unito al consistente apparato logistico ed alle particolari iniziative di natura ideologico-propagandistica, ci restituiscono una credibile immagine sulla reale natura del progetto di colonizzazione demografica attuato in Libia dal regime mussoliniano, qualificabile come vera e propria “creazione politica” dell'Italia fascista. Paradossalmente, proprio quando la Libia raggiunse l'apice del suo sviluppo, Mussolini si lanciò nella Seconda guerra mondiale. [...] Per pochi fugaci anni Balbo aveva trasformato il sogno della "Quarta sponda" in una realtà. Senza di lui, e soprattutto senza il sostegno finanziario di un regime come quello di Mussolini, la “Quarta sponda” si inabissò rapidamente e scomparve.[81]

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Claudio Segré, Italo Balbo, Bologna, 1998, il Mulino.

Tullio Testa, La moschea di Giado, 2010, Lulu.com.

 



[1] Per un’analisi generale sulla storia del colonialismo italiano in Libia, sebbene ormai datata, Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia (vol. I, Tripoli bel suol d’amore,1860-1922 ; vol. II, Dal fascismo a Gheddafi); Milano, 1994, Mondadori. Decisamente più aggiornato, nonostante l’evidente atteggiamento critico nei riguardi del governo coloniale fascista, Federico Cresti, Non desiderare la terra d’altri - La colonizzazione italiana in Libia, Roma, 2011, Carocci. Più specificamente in riferimento alla guerra italo–turca: Sergio Romano, La Quarta sponda. La guerra di Libia 1911- 1912; Milano, 1977, Bompiani.

[2] Per una conoscenza della condotta italiana rispetto alle popolazioni locali nel periodo della riconquista: Federico Cresti, Projet social et amenagement du territoire dans la colonisation de la Libye (1938-1940) in “Correspondances”, bulletin scientifique de l’Institute de recherche sur le Maghreb contemporaine, n°58, 1999, pp. 11-19; dove si sostiene che la stima correntemente accettata delle vittime arabe nei campi di concentramento italiani ammonta a circa 40.000 persone, a tale cifra andrebbero aggiunte inoltre le vittime dell’occupazione del 1911-12 e della lotta protrattasi fino all’avvenuta riconquista all’inizio degli anni Trenta

[3] Federico Cresti, op. cit.

[4] Filippo Castello – La Sicilia e la colonizzazione demografica della Libia, pubblicistica e testimonianze, Tesi di Laurea facoltà scienze politiche Università di Catania, a.a. 1998-1999, pp. 10–11.

[5] Filippo Castello, op. cit. , p. 27. Anche Torquato Curotti, La Libia; dalle immigrazioni preistoriche fino ad una ambigua nazionalità in regime di dittatura, Borgo San Dalmazzo (Cuneo), 1970, Edizioni Istituto Grafico Bertello, pp. 135-136.

[6] Idem.

[7] Ibidem.

[8] A. Del Boca, Gli italiani in Libia , vol. II°, Dal fascismo a Gheddafi , Milano, 1994, Mondadori, p. 258.

[9] Federico Cresti, op. cit.

[10] Giordano Bruno Guerri, Italo Balbo, Milano, 1998, Mondadori, p. 327

[11] Federico Cresti, op. cit.

[12] Idem.

[13] Giordano Bruno Guerri, op. cit. p. 327.

[14] Federico Cresti, op. cit. ; anche in Torquato Curotti, op. cit. p. 137.

[15] Giordano Bruno Guerri, op. cit. p. 327.

[16] Federico Cresti, op. cit.

[17] Idem.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Filippo Castello, op. cit. p. 33.

[21] Vedi Cresti Federico Cresti, op. cit.

[22] Idem.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem.

[25] Per un approfondimento delle vicende che portarono alla trasformazione dell’ E.C.C in E.C.L. : Federico Cresti, “I primi anni dell’E.C.C attraverso i documenti del suo archivio” in Un colonialismo, due sponde del mediterraneo, Atti del seminario di studi storici italo-libici, Pistoia, 2000, Editrice C.R.T. pp. 93-115.

[26] Federico Cresti, Oasi di italianità, la Libia della colonizzazione agraria tra fascismo, guerra e indipendenza (1935-1956), Torino, 1996, S.E.I. , pp. XXV – XXIX.

[27] Sul concetto generale di nuova politica, G. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Bologna, 1975, Il Mulino. In riferimento alla realtà del fascismo italiano, sebbene ormai datato, Renzo De Felice, Il modello fascista italiano, pubblicato su “Ideazione”, n°4, Luglio - Agosto 2000, pp. 192 – 203. Per una visione più aggiornata dei tratti specificamente ideologici, Marco Piraino, Stefano Fiorito, L’Identità Fascista-Progetto politico e dottrina del Fascismo, 2007, Lulu.com.

[28] Giordano Bruno Guerri, op. cit. p. 328.

[29] A. Del Boca, Gli Italiani in Libia, vol. II, op. cit. p. 238.

[30] Per un profilo dettagliato in merito alla vita di Italo Balbo, Giordano Bruno Guerri, Italo Balbo, Milano, 1998, Mondadori; Claudio G. Segré , Italo Balbo, Bologna, 1988, Il Mulino.

[31] In Enciclopedia Italiana, appendice II, 1938-1948, vol. II° , voce Libia, Roma, 1948, pp. 196-199.

[32] Giordano Bruno Guerri, op. cit. p. 323.

[33] Enciclopedia Italiana, appendice I, voce Libia, Roma, 1937, pp.791-792.

[34] Federico Cresti, Projet social et amenagement du territoire dans la colonisation de la Libye (1938-1940), op. cit.

[35] Enrico Galoppini, Il fascismo e l’islam, Parma, 2001, Edizioni del Veltro, pp. 92-93 / 124-125.

[36] Claudio G. Segré , op. cit. p. 375.

[37] A. Del Boca, Gli italiani in Libia, vol. II, op. cit. p. 262.

[38] Federico Cresti, Projet social et amenagement du territoire dans la colonisation de la Libye (1938-1940), op. cit.

[39] Idem.

[40] Del Boca, Gli italiani in Libia, vol. II, op. cit. p. 244.

[41] Giordano Bruno Guerri, op. cit. p. 322.

[42] Claudio G. Segré, op. cit. p. 361

[43] Federico Cresti, Projet social et amenagement du territoire dans la colonisation de la Libye (1938-1940), op. cit.

[44] A. Del Boca, Gli italiani in Libia, vol. II, op. cit. p. 260.

[45] Filippo Castello, op. cit. p. 37

[46] Idem.

[47]A. Del Boca, Gli italiani in Libia, vol. II, op. cit. pp. 260-261.

[48] Idem.

[49] Claudio G. Segré, op. cit. pp. 377

[50] In S.A. 1800 famiglie nei nuovi villaggi libici. Una flotta di diciassette piroscafi trasporterà il 29 ottobre i ventimila coloni ,1938, Corriere della Sera, p. 2.

[51] Idem.

[52]  Le famiglie rurali designate per la colonizzazione libica”, Giornale di Sicilia, 26/10/1939.

[53] Federico Cresti, Projet social et amenagement du territoire dans la colonisation de la Libye (1938-1940), op. cit.

[54] Enciclopedia Italiana, appendice II, 1938-1948, vol. II°, voce Libia, Roma, 1948, pp. 196-199.

[55] Federico Cresti, Projet social et amenagement du territoire dans la colonisation de la Libye (1938-1940), op. cit.

[56] Enciclopedia Italiana, appendice II, 1938-1948, vol. II°, op. cit.

[57] Federico Cresti, op. cit.

[58] Federico Cresti, Non desiderare la terra d’altri – La colonizzazione italiana in Libia, op. cit. , p. 264.

[59] Federico Cresti, Oasi di italianità, la Libia della colonizzazione agraria tra fascismo, guerra e indipendenza (1935-1956), op. cit. , p. 79.

[60] Idem, p. 80.

[61] Nicola Labanca, Oltremare, storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, 2002, Il Mulino, p. 324.

[62] Marco Piraino, Stefano Fiorito, L’Identità Fascista, op. cit.

[63] Secondo quanto riportato, la popolazione civile italiana residente in Libia nel 1940–1941 ammontava a circa 140.000 abitanti; Vittorio Morabito, Discours autobiographiques en situation d’interculturalité – Les memoires des colons siciliens en Libye , Actes du colloque international des 9-10-11 decembre 2003 organisé avec le soutien du rectorat de l’Université d’Alger, Blinda-Algerie, 2004, Editions du Tell, p.165.

[64] I libici censiti nel 1931 risultavano 654.716, nel 1936 risultavano 750.851; in Carl Ipsen, Demografia totalitaria, il problema della popolazione nell'Italia fascista,Bologna,1997, Il Mulino, p.174

[65] “Un’ampia relazione sul potenziamento economico della Libia presentata al Duce dal ministro per l’Africa italiana” , L’Ora, 29 Novembre, 1939.

[66] Idem.

[67] Ibidem.

[68] Torquato Curotti, op. cit. p. 14

[69] Federico Cresti, Oasi di italianità, op. cit. pp. 84 – 85.

[70]  Idem, p. 86

[71] Ibidem.

[72] Federico Cresti, Oasi di italianità, op. cit. p. 252.

[73] Marco Piraino, Stefano Fiorito, Pro Caesar-saggio sulla dottrina fascista dello stato come concezione politica religiosa, 2014, Lulu.com.

[74] In Dizionario di politica a cura del Partito Nazionale Fascista, vol. II, Roma, 1940, voce Islamismo, p. 582.

[75] Carl Ipsen, Demografia Totalitaria, op. cit. p. 182.

[76] Federico Cresti, Oasi di italianità, op. cit. p. 256.

[77] Mario Missiroli, Cosa deve l’Italia a Mussolini, Roma, 1941, Società Editrice di Novissima, pp. 191-201.

[78] Idem.

[79] Enciclopedia Italiana, vol. XIV, voce Fascismo, Roma, 1932, p. 848.

[80] Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, Bologna,1996, Il Mulino, p. 41.

[81] Claudio G. Segré op. cit. pp. 403 – 404.

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